La terapia fagica è stata una delle più controverse innovazioni mediche, seppur limitata ai paesi del patto di Varsavia. Europa e Usa vogliono utilizzarla per combattere la crescente resistenza agli antibiotici e stanno investendo milioni di euro per finanziare in occidente nuovi e rigorosi trial clinici su diverse combinazioni di fagi. Si tratta però della tappa più recente di una lunga e tortuosa storia. Durante la guerra fredda la rivalità tra Est ed Ovest ha coinvolto le più disparate attività umane, prima tra le quali la ricerca scientifica. Tuttavia l’asprezza del confronto scientifico è andata ben oltre la corsa allo spazio e al predominio sull’energia nucleare, imponendosi anche su un terreno che dovrebbe prevedere la reciproca collaborazione: la cura delle infezioni batteriche. Nell’immediato dopoguerra del secondo conflitto mondiale gli antibiotici divengono nei paesi sotto il controllo delle forze angloamericane, merce preziosa, spesso oggetto di furto ed adulterazione in quanto la distribuzione è scarsa tra i civili. In pochi anni però l’applicazione del piano Marshall di ricostruzione dell’Europa e la larga vittoria politica di forze favorevoli ai pieni nazionali sanitari portano ad una diffusione capillare dei primi antibiotici (sulfamidici e penicilline), con la conseguente nascita di “Big Pharma”, quel complesso biomedico-industriale che definisce le multinazionali del farmaco. Ma aldilà della cortina di ferro, che già vede la prime avvisaglie di chiusura forzata dei confini dal baltico all’adriatico, la necessità di combattere le infezioni batteriche prende una via diversa. L’unione sovietica negli anni di guerra aveva una necessità inderogabile di trovare una cura per le ferite infette dei soldati, che non necessitasse di costosi e complessi impianti di produzione, detti bioreattori. La crescente influenza di Lysenko, agronomo avverso alla genetica mendeliana, su tutta l’accademia delle scienze sovietica tanto da diventarne direttore, aumenta la distanza tra medicina sovietica ed occidentale. La soluzione più semplice è usare la terapia fagica (l’uso dei virus batteriofaghi, cioè dei virus che in natura attaccano e distruggono solo i batteri) che già si sta diffondendo nel paese grazie ad un autodidatta, Félix d’Herelle, il primo a comprendere la reale natura del batteriofago, cioè del virus che attacca i batteri. Dopo alterne vicende negli USA, d’Herelle nel 1934 si trasferisce in URSS ,ed insieme a George Eliava, un suo ex collega del rinomato istituto Pasteur aiuta la fondazione di un centro di ricerca avanzato per lo studio dei fagi e della terapia fagica che nasce a Tiblisi, a quel tempo nella Repubblica della Georgia. Quella che sarebbe potuta essere una lunga e complessa sperimentazione della terapia su esseri umani, con evidenti problemi etici, subisce una brusca accelerazione. Nel 1940 le prime fotografie al microscopio elettronico dei fagi sono ottenute in Germania, confermando la natura virale del fago come previsto da d’Herelle e poco dopo, l’invasione tedesca dell’unione sovietica mette immediatamente in competizione gli scienziati di entrambe le nazioni per ottenere una efficiente terapia fagica, mentre negli USA si punta già ai nuovi antibiotici e si preferisce non disperdere risorse e personale. Ma i ricercatori occidentali trasferitisi in URSS potranno continuare il loro lavoro ben oltre il 1945 e godere delle informazioni mediche ricavate dalla sconfitta della Germania e dalle numerose spie presenti nei paesi occidentali. L’inizio della guerra fredda ha la conseguenza di far guardare con sospetto a tutte le idee scientifiche propagandate in URSS, compresa la terapia fagica, mentre i genetisti mendeliani in occidente sono vilipesi e perseguitati dai militanti comunisti. In questa complessa scacchiera gli scienziati cominciano ad essere protagonisti di alto valore, e non più soltanto pedine facilmente controllabili dalla politica e dalle forze armate. La guerra con agenti biologici entra nei programmi di armamento, e le teorie più ardite sui virus, sempre al confine tra vivente e non vivente, vengono verificate dalla nascita della biologia molecolare. All’inizio degli anni 60 le folli teorie biologiche di Lysenko vengono rigettate dall’intellighenzia sovietica e già nascono su tutto il territorio russo laboratori per la guerra biologica mascherati da centri per lo studio delle future biotecnologie. Lo svantaggio temporale viene recuperato velocemente anche grazie a scienziati dell’asse che hanno ricevuto l’immunità per crimini di guerra, ormai integrati nei team di ricerca dei due blocchi. Ma gli Usa non rimangono inerti nello studio dei fagi e nel 1969 Max Delbrück, Alfred Hershey e Salvador Luria, scienziati naturalizzati americani ma nati in Germania sono insigniti del premio Nobel per la scoperta della struttura genetica dei virus e dei meccanismi della loro replicazione. Negli anni successivi le nascenti biotecnologie faranno uso fondamentale dei batteriofagi per la loro capacità, scoperta sempre nel 1952 negli USA, di effettuare la trasduzione e quindi traferire in una cellula batterica materiale genetico estraneo con l’intenzione di riprogrammarne il DNA. Appare chiaro come ingenti risorse siano state destinate a controbattere con successo le innovative ricerche sovietiche sui fagi, ma la terapia fagica sull’uomo non ebbe lo stesso favorevole trattamento in occidente. Negli anni 60 le multinazionali produttrici di antibiotici sono diventate dei potenti finanziatori della politica americana, e nessun paese alleato, dal Giappone alla Turchia, insieme a paesi sostenitori dell’emisfero sud, soffre la penuria di antibiotici. La terapia antibiotica ad ampio spettro è vista come la panacea da somministrare per le affezioni più disparate, seconda solo alla capillare diffusione di psicofarmaci. I primi allevamenti intensivi di bestiame cominciano a presentare infezioni ricorrenti, ma invece di riorganizzare le strutture si preferisce utilizzare gli stessi antibiotici sviluppati sugli esseri umani, sicuri della loro efficacia. Nei due decenni successivi, le avvisaglie di un nuovo problema cominciano a farsi largo in tutti i paesi occidentali, ma l’antibiotico resistenza è ancora contenuta dallo sviluppo di nuovi farmaci, mentre in Polonia, Georgia, Russia si stabiliscono protocolli per l’applicazione su vasta scala della terapia fagica. I cambiamenti geopolitici che si susseguono dalla fine dagli anni 80 mettono fine alla segretezza delle ricerche sovietiche. Negli anni 2000 la comparsa di ceppi batterici resistenti agli antibiotici è registrata negli allevamenti intensivi, nelle strutture ospedaliere, tra i malati immuno compromessi. Una emergenza che cresce lentamente e che le tradizionali terapie non riescono ad arginare, tanto da veder tornare malattie come la tubercolosi che si credevano debellate in tutto l’occidente. La difficoltà di ottenere nuovi antibiotici efficaci e le maggiori conoscenze accumulate del funzionamento dei virus hanno stimolato un programma di investimenti per sperimentare la terapia fagica in occidente, e l’UE ha finanziato il clinical trial “PhagoBurn” nel 2013 con una dotazione iniziale di 4 milioni di euro. Gli articoli su prestigiose riviste scientifiche non si sono fatti attendere e i risultati sono promettenti, tuttavia è lecito domandarsi su come l’industria farmaceutica sarà capace di gestire la proprietà intellettuale delle diverse terapie fagiche, e se un sistema nato lontano dalla logica del profitto possa inserirsi nei sistemi sanitari europei, pesantemente gravati da un eccesso di spesa pubblica dei rispettivi stati. Tuttavia sarebbe sufficiente il ritorno di una singola epidemia di batteri antibiotico-resistenti per intaccare le basi sociali, economiche e politiche di tutti i paesi industrializzati, senza dover scomodare la paura del bioterrorismo. Con sempre maggiore urgenza è necessario trovare una cura alternativa che possa essere prodotta in tempi rapidi e facilmente diffusa per contenere i focolai di infezione. Se nel prossimo futuro avremo disponibili spray per proteggerci dalle infezioni trasmesse negli allevamenti e cure per i ceppi più aggressivi di tubercolosi, se i nostri sistemi sanitari e le nostre industrie farmaceutiche saranno capaci di sconfiggere il pericolo dei batteri farmacoresistenti, dovremo dare il merito alla ricerca e sviluppo della UE, per una volta in lungimirante anticipo anche sui vicini statunitensi.