Il mare, i fiumi, i laghi e le aree costiere italiane rappresentano uno straordinario patrimonio ambientale, culturale e storico nazionale. Tuttavia essi subiscono continue minacce, su più fronti, che mettono a serio rischio l’integrità di questi ambienti, fondamentali per l’economia e lo sviluppo della nostra penisola. Pesca illegale, scarichi illeciti, mala depurazione, cementificazione selvaggia, trivellazioni off-shore, sversamenti di idrocarburi e degrado, insieme a politiche territoriali e nazionali poco lungimiranti, fanno dei nostri bacini luoghi in pericolo da monitorare e proteggere costantemente.

Il problema principale legato all’inquinamento dei bacini idrici è rappresentato dalla perdita della biodiversità delle specie che li popolano. La biodiversità è la varietà di tutti gli organismi viventi presenti sulla Terra (piante, animali e microrganismi) e delle relazioni che questi instaurano con gli ecosistemi di cui fanno parte. La diversità a livello di specie è quella più generalmente associata al termine biodiversità poiché si riferisce direttamente all’eterogeneità di forme viventi che popolano i bacini idrici. La diversità di specie può essere espressa come numero di specie presenti in una determinata area (ricchezza di specie). Ma che cos’è una specie? Il concetto di specie che viene maggiormente accettato è quello coniato da Mayr nel 1963 ed è essenzialmente basato sulla compatibilità sessuale: “la specie è un insieme di individui in grado di incrociarsi fra di loro, effettivamente o potenzialmente, per produrre una discendenza a sua volta fertile, riproduttivamente isolate da altre popolazioni simili”. Il punto centrale di questa definizione è l’isolamento riproduttivo delle popolazioni che appartengono ad una certa specie, sia esso dovuto a fattori geografici che a fattori genetici.

L’aumento infatti di sostanze inquinanti nei bacini idrici, sta causando seri cambiamenti genetici in alcune specie. Uno studio condotto da ricercatori italiani dell’Istituto di ricerca del CNR, nelle acque del fiume Po ha evidenziato la presenza di diversi esemplari di pesci con gonadi intersessuale, cioè contemporaneamente con gonadi maschili e femminili. E’ stato dimostrato che gli effluenti di scarico di origine urbana e industriale sono, per le acque superficiali, fonte di inquinanti capaci di alterare le normali funzioni del sistema endocrino dei vertebrati. Questi inquinanti hanno origine sia naturale sia sintetica e vengono utilizzati per scopi quanto mai eterogenei: dalla detergenza industriale al diserbo in agricoltura, dai plastificanti ai filtri UV, dalle vernici antivegetative delle imbarcazioni sino ai farmaci contraccettivi. Per essi è stata coniata la nuova categoria degli “interferenti endocrini” (endocrine disrupters).

Tra gli interferenti endocrini di origine naturale ci sono paradossalmente i nostri stessi ormoni, che quotidianamente vengono escreti con feci e urine insieme agli altri residui del nostro metabolismo. Ben più numerosi sono gli interferenti endocrini che trovano impiego in industria e in agricoltura (pesticidi). Fortunatamente sono meno potenti degli ormoni naturali ma sono spesso utilizzati e/o dispersi in quantità ben maggiori e quindi capaci di causare effetti tossici. Il risultato è che le comunità ittiche sono esposte simultaneamente a diverse sostanze chimiche che ne modificano il sistema endocrino. Quando un pesce è esposto a queste sostanze, diversi suoi organi e tra questi le gonadi, subiscono modificazioni più o meno profonde in rapporto alle concentrazioni applicate. Il danno è più evidenziato se l’esposizione avviene negli stadi giovanili. Alla luce degli studi svolti sia in laboratorio che in campo a seguito dei primi rinvenimenti di esemplari intersessuali, è ragionevole asserire che la modificazione gonadica più comune sia quella di femminilizzazione e cioè di esemplari di sesso maschile il cui testicolo subisce una trasformazione ad ovario.

Pertanto l’aumento di queste sostanze inquinanti dovuto agli sversamenti sconsiderati negli anni delle varie industrie nei bacini italiani è responsabile dei seri cambiamenti genetici che si stanno osservando nei pesci. La colpa è da attribuire senza dubbio alle strategie di scarico che sono state adottate da chimici ed ingegneri negli anni, dove si immaginava che la diluizione di queste sostanze e di composti chimici e sintetici nelle acque potesse essere la soluzione a tutti i problemi, senza tener conto del processo di accumulazione biologica e di eutrofizzazione, causato dall’accumulo di sostanze come fosforo, azoto o zolfo, che causa un notevole sviluppo algale, dovuto alla riduzione di ossigeno.  Per contrastare l’eutrofizzazione sono necessari interventi che riducano gli afflussi di nutrienti ai corpi idrici (riduzione dei fertilizzanti in agricoltura, depurazione degli scarichi civili ed industriali, trattamento delle acque di scolo delle colture tramite agenti sequestranti ed impianti specifici). Proprio per questo motivo oltre alle norme e alle regolamentazioni già previste dalla Comunità Europea, e al buon senso da parte della comunità industriale, è necessario adottare nuovi approcci e tecnologie a impatto zero sull’ambiente, per limitare o eliminare completamente il carico inquinante, e per far sì che ciò che si è osservato nelle acque del Po sia solamente un’eccezione, in quanto l’accumulo di sostanze ormonali, chimiche o di qualsiasi altra natura nelle specie ittiche può non solo rispecchiarsi in mutazioni genetiche selettive (che potrebbero determinare anche la perdita di alcune specie che da sempre popolano le nostre acque) ma può apportare altri seri problemi, come ad esempio la crescita algale eccessiva,  responsabile della non balneabilità dei nostri mari, con pesanti ricadute anche sulla nostra economia e sul turismo delle coste italiane, o problemi per la salute dell’uomo, che da sempre si basa su un’alimentazione mediterranea. L’assunzione infatti, oltre una certa soglia di sostanze ormonali o di specifiche sostanze chimiche è strettamente correlata alla possibilità di insorgenza di numerose patologie, in primis cancro. E’ necessario dunque investire in ricerca, in innovazione per identificare nuovi approcci che si basino su tecnologie che possano rappresentare soluzioni ecocompatibili ai problemi individuati.

Proprio per questi motivi MATER è da sempre orientata alla sostenibilità ambientale in tutte le sue forme, reputandola essenziale per lo sviluppo sostenibile e per il conseguimento della sostenibilità economica. Progetti di ricerca come “SIBSAC”, hanno infatti l’obiettivo di testare e realizzare impianti altamente innovativi, sicuri ed efficaci, in grado di permettere il recupero di queste aree inquinate, mediante una tecnologia a impatto zero sull’ambiante e sull’uomo.